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Servizio Sanitario Regione Emilia Romagna
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ELENA DI CIOCCIO

“Cambiare comunicazione per combattere lo stigma associato all’HIV”

 

Di referti e di relazioni. Di timori e di tempra. Di abbandoni e ritrovamenti. "Cattivo Sangue" - il libro autobiografico di Elena di Cioccio - è la storia di “una donna che va a sbattere contro qualcosa di più grande di lei”, l'infezione da HIV. Ma che non rinuncia al suo diritto più grande: parlarne.

Elena Di Cioccio - "Cattivo Sangue"
 

Un coming out, un romanzo-testimonianza, l’invito "a spiccare il volo”. Cattivo sangue (edizioni Vallardi) di Elena Di Cioccio - attrice, conduttrice televisiva e radiofonica e ora anche autrice di un’opera autobiografica - è tutto questo: una storia cominciata 21 anni fa in una “mattina come nessuna” e proseguita in salita (“essere sieropositivi ti toglie la meravigliosa opportunità dell’incoscienza”) fra reazioni scomposte, spauracchi vintage (quell’alone viola che rese tristemente nota la Pubblicità Progresso del 1990) e mantra resilienti per “riprendersi la vita”.

È un «libro asciutto», come lo definisce lei stessa, fatto di immagini nitide e parole dritte, in cui l’autrice si racconta fuor di retorica: «Ci ho messo una grande cura, nel ripulirlo dai personalismi: volevo fosse un testo per tutti, la storia di qualsiasi donna che va a sbattere contro qualcosa di più grande di lei».

E l’accoglienza del pubblico parla: «Non mi aspettavo tutto questo interesse. Né sospettavo che, di questo tema, si conoscesse così poco. Presentando il libro ho capito che intorno all’HIV c’è un silenzio comunicativo assordante: se ne è fatto un gran parlare sino ai primi anni 2000, dopodiché il vuoto. Invece sono tanti i sieropositivi con l’urgenza di raccontarsi o di essere raccontati. In Italia, il mio è il quarto libro sull’argomento dopo “La rivoluzione del coniglio” di Antonello Dose, “Febbre” di Jonathan Bazzi e “Se hai sofferto puoi capire” di Giovanni F. con Francesco Casolo. I primi due sono rappresentanti dell’universo omosessuale, con la sua grande identità grandemente bistrattata dallo stigma; il terzo, invece, è la storia del figlio di una coppia di sieropositivi. Una voce femminile mancava»

Quando è arrivato il momento di raccontarsi a voce alta?

«Ho preso appunti sparsi, negli anni, con l’idea di scrivere un racconto anonimo sulla storia di una certa Luisa. Ma questo progetto non si è mai concretizzato. Poi, nel 2016, mia madre è tragicamente mancata. E lì è venuto giù tutto: illusioni, bugie. Ho capito che dovevo mettere in fila le mie cose. E’ stato come un primo vagito di emancipazione, un risveglio. Dopodiché è arrivata la pandemia, e in quello spazio vuoto, sospeso, disperato, ho processato il lutto. Nel 2020 avevo perso tutto: prospettive, urgenze, cose da risolvere, ragioni per sentirmi viva. Mi sono chiesta quale fosse il mio futuro e solo a quel punto ho cominciato a scrivere. E’ stato faticoso come scendere in cantina a luci spente»

Dal confronto col pubblico, qual è la parola che ricorre più spesso?

«Vergogna. Le domande più frequenti del pubblico, anche in forma privata, girano attorno a questo tema: è come una pressione esterna che impedisce alle persone di essere chi realmente sono. Ma gli sguardi sul libro sono diversi a seconda dei lettori, dai semplici curiosi ai ‘conoscitori’ a vario titolo: se ne contiamo almeno una decina per ciascun HIV+ sforiamo il milione di persone direttamente o indirettamente coinvolte nella gestione dell’infezione»

La vergogna è uno di quei "meccanismi di autopunizione” che citi nel libro. La sieropositività è più invalidante a livello mentale che fisico?

«Decisamente. Oggi, poi, si vive tutto più pelle scoperta. Il senso di colpa, la paura dell’esclusione e della morte sono autosabotaggi con cui finisci per credere che fra te e l’altro il peggiore sei sempre tu. Nella condivisione, invece, puoi trovare forza, accettazione. E affermare anche il diritto alla leggerezza»

Quasi 38 milioni di persone nel mondo vivono con il virus HIV (di cui oltre 130.000 in Italia), ma lo stigma è tuttora presente.

«Il racconto di questa malattia è ancora figlio degli anni ’80, anni in cui ‘promiscuo' significava ‘sporco’ e ‘malato’ era sinonimo di ‘schifoso’. Ogni epoca ha i suoi mostri e le sue narrazioni. Mia nonna, ad esempio, pur non avendone mai avuto esperienza diretta, temeva la peste ed il colera, un tempo descritti come mortali e presenti (quindi possibili). Anche in passato, insomma, non c’è mai stata una comunicazione diversa, adeguata»

Come superare questa narrazione stigmatizzata?

«Con una divulgazione nuova, realistica, di cui dovrebbero occuparsi tanto lo stato quanto la chiesa: è difficile da mandare giù, ma ne abbiamo bisogno. Occorre portare nelle scuole un’educazione sessuale a tutto campo, per sapere come proteggerci dal mal di gola così come dalle malattie sessualmente trasmissibili (non solo l’HIV ma anche l’Epatite C, la Candida, il Papilloma virus...). Alle famiglie, poi, spetta un grande compito: l’”imbarazzo” delle vecchie generazioni su certi temi può ancora fare danni. È una pistola carica»

Nel libro racconti i tentativi - spesso goffi e scomposti - di reazione al virus, sottolineando la difficoltà di non lasciarsi prendere dal panico. E’ un aspetto su cui il personale medico si dimostra supportivo?

«In generale, sì. Ma la responsabilità resta dell’assistito: ogni paziente ha il dovere di mettersi in una prospettiva operativa, di collaborazione. Siamo figli di una cultura per la quale “c’è sempre una soluzione rapida a tutto”. E invece sta a noi, ai singoli, proporre soluzioni, produrle. Me lo ha insegnato la pratica di Jōsei Toda, maestro del buddismo moderno: se senti che manca un pezzetto per la tua categoria, aggiungilo tu, sii costruttivo. Ciascuno di noi ha la responsabilità di fare un passo: il supporto psicologico va chiesto, non sperato! Un esempio vissuto in prima persona: tempo addietro, a Roma, una parte del Centro Malattie Infettive fu trasferita causando non pochi disagi agli utenti, costretti a passare attraverso il CUP a discapito della privacy. Mi arrabbiai e parlai con un primario: “c’è una macchina complessa dietro questa scelta - mi disse - ma voi fatevi sentire”. Siamo troppo abituati ad aspettare che qualcuno ci risolva le cose»

Un capitolo del libro titola “Nel dubbio, preservativo!”. C’è sufficiente consapevolezza a riguardo?

«In “Cattivo Sangue” racconto una sessualità femminile libera perché sono una donna dall’approccio poco romantico (e il romanticismo è cosa diversa dal piacere, ricordiamolo!): il preservativo è uno strumento fondamentale di pulizia, prevenzione e rispetto. Purtroppo c'è ancora poca consapevolezza a riguardo. Anzi: rispetto al condom, i più, alzano il sopracciglio. Per non parlare di PrEP e PEP, che sul piano conoscitivo sono terra di nessuno»

[Ndr: per approfondimenti su PrEP e PEP, clicca qui; al link che segue il video su "La PrEP in Emilia Romagna oggi: dati, strutture e accesso"]

La gratuità ne faciliterebbe l’uso?

«Mi limito a fare un conto: se un paziente in cura costa allo Stato circa 1.500 euro al mese - traducibili in 18.000 euro all’anno (e moltiplicabili per oltre 130.000 persone in trattamento) - è facile capire il vantaggio, anche economico, che l’accesso a un dispositivo così basico e sicuro garantirebbe»

Nel 2002 scegliesti di tacere con tutti, compresi familiari e amici, l'esito del tuo test sierologico. Lo rifaresti? Cosa consigli a chi vive la stessa situazione?

«Come ho scritto nel libro, oggi farei un coming out immediato, mandando affanculo chi mi ha voltato le spalle. Ma consigli da darne non ne ho, perché ciascuno vive la propria vita come qualcosa di unico e speciale. Mi limito a ricordare che la felicità personale è importantissima anche dal punto di vista medico. E che siamo tutti perfettamente dotati delle qualità che ci occorrono per vivere. Dobbiamo solo imparare a volerci bene come singoli: è un concetto educativo che abbiamo perso»

“Cattivo sangue” continua oltre le sue pagine in una casella di posta elettronica - scrivi@elenadicioccio.com - rivolta a chiunque abbia un segreto bruciante o una storia da raccontare.

«Sto ricevendo tante testimonianze, alcune straordinarie, a questo indirizzo. Il potere della condivisione, se onesta, è fortissimo: ti fa sentire accolto, ti fa sapere che vai bene lo stesso. Condividere significa sentirsi meno soli, magari trovando qualcuno capace di verbalizzare ciò che altri non riescono a dire. Basta porsi con rispetto. Basta prendere l'altro per quello che è: con le sue fragilità e le sue imperfezioni».

 
Ultima Modifica: 11.05.2023 - 11:29